Il termine deriva dal greco paroikia, letteralmente "coloro che abitano intorno, vicinato"; fu utilizzato nella traduzione greca della Bibbia per indicare l'esilio degli ebrei in Babilonia (in senso religioso la parrocchia è dunque la condizione di esilio in cui i fedeli si trovano nella vita terrena). Nei primi secoli della cristianità la parrocchia era prevalentemente la comunità raccolta attorno ad un vescovo (quella che poi si chiamò "diocesi").
A partire dal XII-XIII secolo il termine entrò in uso per indicare la chiesa di cura d'anime, nelle sue varie accezioni: istituzionale (i fedeli che vivono in un determinato territorio), territoriale (l'ambito territoriale stesso), edilizia (l'edificio sacro cui fanno riferimento i fedeli che vivono in quel territorio). Giunse così ad affiancare prima e a soppiantare il termine pieve (plebs), che fino ad allora aveva analogamente indicato le chiese battesimali dipendenti dal vescovo e aventi la pienezza dei diritti di cura d'anime (celebrazione del battesimo e dei funerali, presenza stabile di uno o più preti, riscossione della decima). Il passaggio da pieve a parrocchia talvolta fu una vera sostituzione, dato che le vecchie pievi (nate in età carolingia nel momento in cui si era reso necessario delimitare quali chiese avessero diritto alla decima, e da quali territori) furono abbandonate a favore di nuove chiese, più vicine ai nuovi centri abitati; in questo senso la parrocchia è il nuovo distretto di cura d'anime formatosi nel basso medioevo all'interno e a danno della pieve. Non è però infrequente che tra pieve e parrocchia ci sia stata perfetta continuità e si sia trattato di una semplice modifica di carattere terminologico (la chiesa che era nota come pieve cominciò a venir chiamata parrocchia).
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Nel caso di erezione di una nuove stazione di cura d'anime, va ricordato che la base giuridica che rendeva possibile tale processo era una lettera di papa Alessandro III (1159-1181) al vescovo di York, poi inserita nella collezione delle Decretali di Gregorio IX (1227-1241): ciò poteva avvenire a condizione che vi fosse un'eccessiva distanza tra il villaggio interessato e la chiesa matrice, tale da rendere impossibile una partecipazione adeguata da parte dei fedeli alla pratica liturgica, e a condizione che si potessero fornire redditi adeguati al sacerdote destinato ad officiare nella nuova parrocchia. Non è difficile trovare negli archivi parrocchiali (e talvolta anche in quelli comunali) documentazione relativa alle trattative e alle liti, quasi sempre di durata secolare, connesse con il progressivo scivolamento dei diritti parrocchiali ad altri centri di cura d'anime, dapprima subordinati (curazie) e poi indipendenti.
In età moderna e contemporanea il termine "parrocchia" rimase ad indicare l'organizzazione territoriale di base della cura d'anime; anzi, il Concilio di Trento invitò i vescovi a definire stabilmente i confini delle parrocchie e a istituirle dove ancora non vi fossero: «assegnino a ciascuna un proprio parroco permanente, che possa conoscerle, e da cui soltanto ricevano lecitamente i sacramenti...e cerchino di fare al più presto la stessa cosa nelle altre città e luoghi dove non vi sono affatto chiese parrocchiali» (sessione XXIV, canone 13). Alle parrocchie il Concilio affidò inoltre, con il famoso decreto "Tametsi" del 1563 (sessione XXIV, canoni 1 e 2), la tenuta dei registri relativi ai matrimoni e ai battesimi: scritture che in seguito andarono a comporre - assieme con i registri delle cresime, dei morti e gli stati delle anime - i cosiddetti quinque libri canonici, fissati anche nel formulario dal Rituale Romanum del 1614. L'attuale assetto parrocchiale dipende in ampia misura da questa impostazione, anche se sono state numerose, dal Settecento ad oggi, le variazioni in ordine al numero delle parrocchie, con riduzioni e accorpamenti (soprattutto nei centri urbani) o trasformazioni in parrocchie di molte di quelle che in contesto extracittadino erano chiese minori e dipendenti.
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